“Google è un monopolista”. La sentenza Usa può cambiare le ricerche online
“Google è un monopolista nelle ricerche online”. A dirlo è Amit Mehta, giudice federale statunitense, che ha messo una parola pesante sul più importante processo per il mondo digitale perché segna la vittoria dell'Antitrust a stelle e strisce. La sentenza della causa avviata nel 2020 era chiamata a definire il ruolo di Google ma non a indicare soluzioni per un eventuale cambiamento, su cui si incentrerà la seconda parte del dibattimento. Secondo Mehta, Big G ha messo in atto tattiche non legali mirate a creare e proteggere nel tempo la sua posizione dominante. In primo luogo siglando accordi economici con partner strategici, come Apple. Nel corso del processo sono state diffuse cifre rilevanti, come gli oltre 26 miliardi di dollari annui versati da Google nelle casse di altre compagnie per assicurarsi che tutte avessero il motore di ricerca più noto al mondo come opzione predefinita. E al contempo, rendere inutili per quelle aziende sviluppare un proprio motore di ricerca.
Trasformare Google Search nella porta d'accesso a internet per tutti i possessori di iPhone e iPad è valsa ad Apple poco meno di 20 miliardi all'anno. Questa e altre mosse effettuate da Big G, stando alla sentenza, avrebbero permesso all'azienda di ergersi come gigante del mercato e azzerare lo spazio dei concorrenti in maniera duratura. In tal senso, è sintomatico secondo il giudice osservare come la quota di mercato di Google come motore di ricerca sia salita dall'80% del 2009 al 90% registrato nel 2020. Una superiorità schiacciante, che diventa ancora più estrema se confinata ai dispositivi mobile, dove si raggiunge il 94,9%. Per il Dipartimento di Giustizia americano, Google ha violato lo Sherman Act, la più antica legge antitrust degli Stati Uniti d'America (risale al 1890), nonché principale argine del governo statunitense per limitare i monopoli e i cartelli.
Da parte sua, invece, la compagnia di Mountain View spiega la formula del successo con la certezza di offrire "il servizio migliore". "Questa decisione riconosce che Google offre il miglior motore di ricerca, ma conclude che non dovremmo poterlo rendere facilmente accessibile", ha commentato Kent Walker, presidente degli Affari Globali di Google. Per questo ha già annunciato che farà ricorso contro la decisione. Seppur al momento sia impossibile stabilire cosa succederà, per comprendere la portata di una sentenza storica va considerato che tra le potenziali soluzioni, qualora il giudizio resterà tale dopo il ricorso, i giudici potrebbero stabilire che Google non debba più stringere accordi con i partner, oppure, nel caso peggiore per Big G, l'obbligo di creare un'azienda ad hoc per Google Search, separata da Google LLC (di cui fanno parte i sistemi operativi Android e Chrome OS, YouTube e Gmail, Play Store e Google Map).
Soddisfazione arriva dall'Antitrust statunitense, secondo cui “la sentenza apre la strada all'innovazione per le prossime generazioni”. La Casa Bianca parla di una "vittoria per il popolo americano". Entra più nel vivo del discorso Kamyl Bazbaz, vicepresidente di DuckDuckGo, motore di ricerca che non traccia gli utenti, secondo cui quanto accaduto dimostra che c'è “una domanda repressa per i motori di ricerca alternativi a Google, che farà di tutto per non cambiare la sua condotta”. Aggiungendo che la sentenza è un primo passo per aprire il campo a più opzioni. A proposito di condotta, è importante notare come quanto fatto dall'Unione Europea e più di recente dagli Stati Uniti è sintomo che gli organi competenti vogliano porre un freno alla sfrenata crescita delle big tech. Un'accelerazione forse arrivata troppo tardi, non solo per il potere e il denaro che poche grandi compagnie hanno ottenuto nel corso degli ultimi quindici anni. Un punto chiave è la consuetudine di utilizzare una serie, ormai lunga, di servizi, attività e applicazioni diventate parte integrante della nostra quotidianità, non solo lavorativa. Doverci (eventualmente) rinunciare all'improvviso, potrebbe non essere indolore.