Il governo si smentisce su startup e incubatori
Tanto tuonò, che non piovve. In molte occasioni, il governo Meloni ha ripetuto – a mo’ di tormentone estivo – che l’obiettivo principale dell’esecutivo è quello di creare un ecosistema fecondo per consentire agli imprenditori e alle imprese nostrane di nascere e svilupparsi in Italia. Alla luce di quanto inserito e approvato (dal Consiglio dei Ministri) nel cosiddetto ddl Concorrenza, sembra che si voglia andare in tutt’altra direzione. Il provvedimento, che potrà essere modificato solo attraverso emendamenti (a meno che non si proceda, ancora una volta, con il classico “voto di fiducia”), non solo non modifica di tanto il terreno di sviluppo per le startup (innovative e non), ma rischia di peggiorare la loro situazione.
Ddl Concorrenza, cosa non cambia per startup e incubatori
Sono poche le luci e molte le ombre. Per esempio, è stato imposto un capitale sociale di 20mila euro (e con la presenza di almeno un dipendente assunto) per le startup entro due anni dall’iscrizione nel cosiddetto “registro speciale”. La bozza iniziale, fortunatamente modificata prima dell’approvazione, prevedeva addirittura quel vincolo fin dalla costituzione della nuova impresa. Questo vale anche per le PMI. L’unico elemento positivo è rappresentato dall’aumento – da 60 a 84 mesi – della permanenza all’interno del suddetto registro speciale per quelle nuove imprese che “operano in settori strategici”. Questo, però, non rappresenta uno stimolo a investire in Italia.
Ci si attendeva anche una grande riforma per il mondo degli incubatori, che ancora devono rispettare (per ottenere la certificazione) dei requisiti obsoleti e indicati in una legge datata 2012. E, invece, anche per loro il bicchiere sembra essere vuoto. Al netto di una deduzione fiscale del 30% dell’Ires – la stessa di cui godevano già le startup -, nono sono stati modificati quei paletti e quei vincoli ormai vecchi e desueti. Insomma, l’ennesima occasione persa.
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