Zeno D’Agostino: «Dirigere il porto di Trieste è stato un onore, mi sono dimesso per godermi la famiglia»
Quando tuo padre nasce a Verona in piazza San Zeno, a un passo dalla basilica di San Zeno, dove ci sono la statua del «San Zen che ride» e la cripta che in un’urna trasparente custodisce le spoglie del Vescovo Moro, diventa quasi obbligatorio essere battezzato con il nome del patrono di Verona venuto dal Nord Africa intorno all’anno 300.
Se poi tuo padre Ginetto D’Agostino, al secolo Luigi, è stato per 55 anni il presidente del Comitato Bacanal del gnoco di San Zeno, l’anima del carnevale veronese, appare inevitabile venire al mondo al numero 4 di via Lenotti, 230 metri dalla predetta piazza San Zeno, e crescere al numero 31 di via Scarsellini, 10 metri di distanza in meno dal cuore della Verona dei «putei che g’à Minico Bardassa par general», descritta da Berto Barbarani, poeta dialettale amico di Trilussa, nella lirica San Zen che ride mandata a memoria da ogni veronese che sia fiero delle sue origini.
Zeno D’Agostino, 56 anni, fino al marzo scorso presidente dell’Autorità di sistema portuale del mare Adriatico orientale, si meraviglia che a uno come lui, venuto dalla terraferma, il governo avesse affidato nel novembre 2016 le sorti del primo porto d’Italia, quello di Trieste.
«Tutti i miei colleghi che guidano le altre 16 Autorità di sistema portuale del nostro Paese erano nati sul mare», spiega. Eppure è stato anche presidente di Assoporti, l’associazione che raggruppa le Autorità e i 57 porti di rilievo nazionale, ed è tuttora al vertice dell’Espo, l’European sea ports organisation di Bruxelles che raduna i porti d’Europa.
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Il sanzenate sembra dimenticare che un qualche gene marino nel sangue ce l’ha. Il nonno paterno, Francesco, classe 1888, era originario di Palermo, importante porto sul Mediterraneo. Mandato in Veneto durante la Prima guerra mondiale, Francesco D’Agostino divenne bersagliere dell’Ottavo reggimento e si distinse come guastatore al fronte. L’Ottavo era di stanza nella caserma Riva di Villasanta, manco a dirlo nel rione di San Zeno, dove prestò servizio Benito Mussolini. Lì fuori D’Agostino conobbe Angela Montresor, che abitava in piazza San Zeno e che lo sposò, dandogli nel 1925 l’unico figlio, Luigi detto Ginetto. Il padre di D’Agostino fu il primo dipendente assunto in Autogerma, l’importatrice delle auto tedesche che il fondatore Gerhard Richard Gumpert aveva trasferito da Bologna a Verona.
L’ex presidente del porto di Trieste, padre di Luigi, 7 anni, e Amelia, 4, pur abitando a Trieste ha sempre mantenuto il cuore nel quartiere dov’è nato. «Fui il primo Papà del gnoco in miniatura, avevo 6 anni quando partecipai in maschera alla sfilata del Venardì gnocolar. Ancor oggi tutti sanno che quel giorno non esisto per nessuno, devo essere lì, accanto al sire del carnevale scaligero».
Si è spiegato il motivo per cui il principale porto italiano fosse stato dato in mano a un uomo di terra, anziché di mare?
«Potrei risponderle che si trattava della prosecuzione logica della precedente esperienza, quella di commissario straordinario dell’Autorità portuale di Trieste. In realtà mi piace pensare che avessero prevalso le mie due anime».
E quali sarebbero?
«Una è l’anima del contabile. L’ho ereditata da mia madre, Bianca Marostica, che era nata in campagna, a Badia Polesine. Lì erano le donne a governare i conti di casa, i mariti lavoravano e basta. L’altra è l’anima dell’uomo di relazioni. La debbo a mio padre. Fin da quando avevo appena 4 anni, mi ha sempre portato con sé in tutte le occasioni ufficiali legate al carnevale. Ho indelebili nella memoria incontri con i sindaci e i prefetti che via via si sono succeduti a Verona. Quante volte papà mi ha fatto recitare in pubblico San Zen che ride di Barbarani».
Dimentica l’anima del politico. Nei suoi incarichi ha avuto come sponsor il Partito democratico.
«Sì e no».
Era Matteo Renzi, il premier, quando fu scelto per Trieste.
«Ci fu un regolare bando ed ero solo uno dei 270 candidati».
Non si diventa direttore generale dell’Interporto di Bologna, come lei è stato dal 2011 al 2013, senza la benedizione dell’ex Pci.
«Ma a Verona ho sempre dialogato anche con gli esponenti del centrodestra, dall’allora sindaco Federico Sboarina all’assessore Daniele Polato, ora neoeletto al Parlamento europeo, fino a Matteo Gasparato, presidente del Quadrante Europa».
A Napoli la chiamò il governatore dem Antonio Bassolino.
«In realtà fu l’assessore regionale ai Trasporti, Ennio Cascetta. Cercava un teorico per costituire Logica, acronimo di Logistica in Campania, un’agenzia regionale che riuniva i porti di Napoli e Salerno e gli interporti di Nola e Marcianise, nella quale erano coinvolti anche Confindustria, Confapi e Unioncamere. Poi fui nominato segretario generale dell’Autorità portuale di Napoli durante il mandato del ministro Altero Matteoli, esponente di Alleanza nazionale. Ho trovato i partenopei molto tolleranti nei confronti di un veronese che tifava e tifa per l’Hellas».
Però si dimise non appena venne eletto governatore Stefano Caldoro, esponente di Forza Italia.
«Alla cieca. E in 20 giorni mi fu offerto l’Interporto di Bologna. Dopodiché Gasparato mi volle come responsabile dello sviluppo del Consorzio Zai».
Ma durò poco.
«Fino al febbraio 2015. Il fatto è che io ho bisogno di comandare, lo dico senza problemi. O gestisco le cose in prima persona o non riesco a combinare nulla di buono. Il ruolo del consigliori non mi si addice. Anche mio padre era fatto così. Ha sempre preteso di essere eletto presidente del Comitato Bacanal del gnoco all’unanimità. Dovevano esserci 29 voti a favore e un astenuto, lui. Se dall’urna usciva anche un solo voto contrario, faceva rifare la votazione o rifiutava l’incarico».
Perché si è dimesso dal porto di Trieste?
«È stato un onore dirigerlo. Ma tutte le cose hanno un inizio e una fine. A dicembre si sarebbe comunque chiuso un ciclo. Visto che un terzo mandato non era possibile, ho preferito anticipare. Posso dirlo? Volevo passare un’estate in relax con la mia famiglia. Ma per almeno un anno resto presidente del Coselag triestino, il Consorzio di sviluppo economico locale dell’area giuliana».
Poi che farà?
«Non lo so. Di sicuro non andrò a dirigere un altro porto. Non avrei l’entusiasmo che mi condusse a Trieste, né potrei ricavarne le medesime soddisfazioni».
E le stesse grane.
«Si riferisce al blocco del porto durante la pandemia?».
Mi riferisco agli idranti con cui furono dispersi i lavoratori portuali.
«Quella fu una decisione del prefetto, non certo mia. Stavano bloccando l’attività e provocando un danno economico rilevante».
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In che rapporti era con Stefano Puzzer, leader dei no green pass?
«Ottimi. Era il vero rappresentante dei portuali, sia pure a capo di un sindacato molto autonomo, quindi il mio principale interlocutore. Lo consideravo un amico».
Usa l’imperfetto.
«Non posso più ritenerlo tale. Puzzer e i suoi persero la testa».
Si ricorda quando vide per la prima volta il mare?
«Ero molto piccolo. La mia famiglia andava in vacanza a Lignano Sabbiadoro. A quell’epoca non c’era nulla, solo la pensione Giovanna, dove alloggiavamo».
Perché andaste proprio a Lignano Sabbiadoro?
«Mio padre aveva un rapporto storico con i giostrai veronesi, come i Casagrande e i Medini, per via del lunapark che allestivano a San Zeno durante il carnevale. D’estate si trasferivano tutti lì e lo convinsero che era una bella località».
Com’è arrivato alla logistica?
«Nel 1988 fu il mio primo lavoro ai Magazzini generali di Verona, con presidente Roberto Bissoli, il leader dei dorotei soprannominato Rambo, che sarebbe morto suicida nel 2022. Anche qui, nel 1996, diedi le dimissioni dalla sera alla mattina».
Per quale motivo?
«Per rimettermi a studiare all’Università di Padova. Da tempo avevo smesso di dare esami. Con gli 8 milioni di lire della liquidazione, mi pagai la retta nel Collegio francescano, 300.000 lire al mese in stanza doppia, laureandomi in Scienze politiche a 31 anni. Barbara Di Bernardo, docente di economia industriale, volle essere la relatrice della mia tesi e mi offrì di diventare suo assistente. Mi ritrovai in cattedra, con 300 studenti da seguire».
Dopodiché arrivò al più importante porto d’Italia.
«Merito dell’imperatore Carlo VI, padre di Maria Teresa d’Asburgo, duchessa di Parma e Piacenza. Nel 1719 conferì a Trieste la patente di porto franco, trasformando un borgo di pescatori in un punto strategico dell’Impero austriaco. Da più di 300 anni conserva questa qualifica».
Che significa porto franco?
«Che quando le merci arrivano nei 2 milioni di metri quadrati del porto, è come se non entrassero nell’Unione europea. Quindi non pagano né Iva né dazi né accise».
Per sempre?
«Non esageriamo. Versano queste gabelle quando escono dal porto, e solo dopo 180 giorni. Invece a Rotterdam si sborsano entro un mese. Non esiste termine doganale: le merci possono restare nei nostri magazzini per lungo tempo».
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Sempre grazie a Carlo VI?
«La patente di porto franco internazionale è stata confermata dal Trattato di pace del 1947 e dal Memorandum di Londra del 1954, sottoscritto da Italia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Jugoslavia, che restituì Trieste al nostro Paese. Il presidente dell’Autorità portuale ha la facoltà di ampliare, sospendere o creare altri punti franchi. Infatti nel 2019 istituimmo FreeEste, una zona di 230.000 metri quadrati fuori dal porto».
Quante navi vedeva attraccare in un anno?
«Circa 6 al giorno, con traffici per un totale di 65 milioni di tonnellate. Fra import ed export, movimentavamo merci per 40 miliardi di euro».
Ha battuto il porto di Genova.
«Genova fa il triplo dei container rispetto a Trieste. Però non porta neppure un grammo di roba oltre le Alpi. Ho governato il primo porto petrolifero del Mediterraneo. Il 100 per cento dei carburanti che servono alla Baviera arrivano da Trieste a Ingolstadt con l’Oleodotto Transalpino di 752 chilometri, costruito negli anni Sessanta grazie a Enrico Mattei, il fondatore dell’Eni».
Genova poteva fare altrettanto.
«Quando nasci fortunato, non vai in cerca del resto».
Da che nazioni partono le navi che approdano a Trieste?
«Da tutte. Pensi solo a quante ne arrivano con il caffè, la materia prima più simbolica: qui ne sbarca un terzo di quello tostato in Italia».
Il tonnellaggio medio delle navi?
«Impossibile determinarlo. Diventano sempre più grandi. Non ci sono limiti nell’accoglierle, perché da tre secoli il pescaggio del porto vecchio di Trieste è di 13,5 metri, più che a Venezia, e quello del porto nuovo di 18 metri. Una felice intuizione degli Asburgo: mentre fino a Monfalcone i fondali sono sabbiosi, e quindi hanno bisogno di essere continuamente dragati, nell’Adriatico orientale sono rocciosi, non richiedono alcuna manutenzione».
A quanta gente dava lavoro?
«Più di 11.000 persone, con l’indotto. Nei primi cinque anni ho portato il fatturato dell’Autorità da 80 a 120 milioni di euro. Avevo banche e investitori in coda fuori dal mio ufficio. Ma noi non avevamo bisogno di soldi, bensì di player industriali. Lo spiegai anche a un pezzo grosso all’ambasciata italiana a Pechino, il quale mi avvicinò per segnalarmi che poteva portarmi soggetti disposti a tirare fuori cifre a nove zeri. Che me ne facevo? Avevo in casa le Generali, se mi fossero serviti i quattrini. Il problema erano le idee».
Avevo capito che Trieste doveva diventare il punto d’arrivo della nuova Via della seta.
«Trieste è un nodo nevralgico della logistica a livello globale. La Cina ha la supremazia mondiale dei porti. Se dice di essere interessata a te, come fai a non parlarci insieme? Gli Stati Uniti non contano nulla in questo campo, benché i container li abbiano inventati loro nel 1959. Ma già il nome Belt and Road che Xi Jinping ha fatto inserire nella Costituzione mi suonava osceno. I rapporti si sono subito raffreddati».
Perché?
«I cinesi avrebbero preteso di entrare a modo loro, dettare le regole, come è accaduto in Grecia. Ma noi non volevamo finire come il Pireo, dove Pechino ha ordinato “fate questo, fate quello”. Avevamo già la nostra Agenzia per il lavoro portuale. Era inconcepibile che la Cina ci mandasse i propri lavoratori. Lo stesso vale per i treni. Il porto di Amburgo ne muove 250 al giorno, noi 250 a settimana, eppure le autorità tedesche vennero a studiare il nostro modello, che funziona più del loro. I tedeschi hanno 16 aziende per le manovre ferroviarie, noi una sola. Insomma, a me spettava tutelare un bene che è del Demanio, cioè dello Stato. Penso di averlo fatto».
Chi sono i concorrenti europei del porto di Trieste?
«Il primo è Rotterdam. Ma i veri modelli sono Amburgo e soprattutto Duisburg, il più grande porto interno del mondo, che movimenta 4 milioni di container l’anno, contro i 790.000 di Trieste, pur trovandosi a 250 chilometri dal mare».
Esclude di dedicarsi alla politica in futuro?
«Sì. Oddio, se mi venisse offerto un ministero tecnico, potrei pensarci. Ma la politica pura non m’interessa. Troppi compromessi, per come sono fatto io. Quando l’Autorità nazionale anticorruzione annullò per un cavillo la mia nomina a presidente, decisione poi cassata dal Tar, e i portuali protestarono in piazza Unità d’Italia insieme con 5.000 cittadini, gli amici mi scrissero: “Non vedi quanto sei benvoluto? Perché non ti candidi?”. Risposi: dimenticate che sono benvoluto proprio perché non faccio politica».
Da chi ha imparato di più nella vita?
«Da mio padre. Mi bastava guardarlo».
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