Tullio Avoledo e l’odore della guerra nel libro “I cani della pioggia”
Per un regista abile sarebbe vantaggioso mettere su pellicola “I cani della pioggia” di Tullio Avoledo (Marsilio Farfalle) — un action adrenalinico perlopiù di un raro realismo contemporaneo (romanzi sul conflitto russo-ucraino non abbondano di certo sugli scaffali) — e senza dannarsi l’anima per la sceneggiatura: ci ha già pensato lo scrittore pordenonese con una serie di dialoghi che esaltano gli odori e i sapori di una stramaledetta guerra più viva che mai.
«Per ora nessun cineasta ha suonato il mio campanello — precisa il narratore friulano — anche se, di questi tempi, è difficoltoso interagire con la Rai e, ancor di più, con Netflix. Entrambi esigono cambi di personaggi in corsa per cui fino all’ultimo ciak non stai mai tranquillo. Aggiungerei un non trascurabile fattore. Ai tempi di “Lawrence d’Arabia” o del “Dottor Zivago” le grandi produzioni giravano in Spagna per risparmiare. Adesso c’è un solo Paese che offre sani vantaggi: la Bielorussia».
“I cani della pioggia” — c’è una canzone di Tom Waits “Rain Dogs” che ha ispirato Avoledo— sarà il titolo presentato giovedì 1 agosto per gli “Incontri con l’autore e con il vino”, alle 18.30, al PalaPineta di Lignano, promosso dall’associazione Nel Terzo Millennio di Giorgio Ardito. Dialogherà con lo scrittore Alberto Garlini, curatore della rassegna letteraria Si brinda con il Friulano della Cantina I Magredi.
Giusto per spiattellare un paio di concetti chiave: due uomini raggiungono la scena di guerra fra Ungheria e Ucraina per liberare la donna di Marco Ferrari. L’altro è una specie di guida, ovvero il crudele Sergio Stokar. Due personaggi già esplorati in due libri diversi e ora uniti per la vita in questo.
«Un critico mi confidò la sua supposizione sul caso. Secondo lui la scelta di affiancare uno all’altro — nonostante Marco e Sergio siano distanti fra loro anni luce — è che quando il lettore decide di prendere le distanze dalle follie di Stokar si rifugia nella comfort zone di Ferrari, uno più normale e umano, seppur costretto sfidare se stesso in un’impresa all’apparenza inverosimile».
E lei concorda con la riflessione del giornalista?
«L’osservazione è interessante, certo. Aggiungo che Stokar, una sorta di moderno Don Chisciotte, è uno molto scorretto e l’ho scelto proprio per dare una spallata al buonismo a volte odioso, che spesso insiste nel vedere il bello dove il bello non c’è».
Curioso constatare come il periodo pandemico non sia stato preso di mira dagli scrittori. E lo stesso si può dire per questo conflitto.
«Nessuno vuole spingersi a immaginare un dopo, che trovo necessario. Non vorrei uscire dai binari però mi piace ricordare come in Cina sia stata organizzata una grande reunion dei più grandi “inventori” di fantascienza del globo, organizzata dal Ministero degli affari del futuro. Da loro esiste. E questo perché alcuni geni — ne cito uno fra tanti, Steve Jobs — in gioventù leggevano le opere di science-fiction. Il problema è che i cinesi, da Mao in poi, non hanno mai immaginato altri mondi se non quello imposto dal sistema».
Perdoni la banalità: ma cos’è che l’ha catapultata in questo viaggio pazzesco?
«Alcuni fatti. L’aver dialogato a pordenonelegge con una narratrice ucraina che mi raccontò di un amico disperso dietro le linee nemiche e poi ritrovato in una fossa comune con i polsi legati e un buco nel cranio e la diffusa ignoranza del popolo sul poligono “Butovo” di Mosca dove furono uccisi trentamila oppositori di Stalin. Pare che nessuno lo voglia sapere né ricordare. Io, fra l’altro, mi giocai la fiducia dell’editore russo per un post su fb sul conflitto che lui non digerì affatto. Pazienza».
C’è una nuova storia che frigge nella sua fantasia?
«Già consegnata all’editore. Si tratta di un thriller ecologico con protagonista una coppia milanese. L’ambientazione è friulana con il Tagliamento in primo piano».
Certo che lei è infaticabile.
«Vedrà quando andrò in pensione!».