Lazio, 20 anni di presidenza di Lotito: le critiche giuste e quelle ingiuste
di Pancrazio Cardelli Anfuso
Un tempo Giorgio Chinaglia era il grido di battaglia. Ora, a parte il disdicevole riferimento al ritornello fascistone, segno che certe derive curvarole partono da lontano, evocando quelli brutti che arrivano dopo (una volta uno di questi ceffi me lo disse chiaro, stai attento a parlare di nazisti, che poi succede che trovi quelli veri e allora sono guai), il punto centrale, dicevo, è quello che ha prodotto Giorgio Chinaglia nel sentimento laziale.
Tutti quelli che ne parlano dicono di affrancamento dalla subalternità, uscita dal guscio, pretesa di egemonia nelle gerarchie calcistiche romane, rivalsa nei confronti del vicino coatto e prevaricatore. Questo cozza con la pretesa dei nobili natali, retti come gli angoli creati dagli incroci ortogonali delle strade umbertino/giolittiane di Prati, o meglio li innerva di spavalderia e spirito di provocazione mai visti prima.
Un effetto perverso innescato dai poveri pernacchi degli Orazi Pennacchioni, ai quali l’animo nobile dovrebbe opporre spallucce e scuotimenti del capo, preso da ben altri ragionamenti, centrati sulle sorti del mondo e sull’eleganza della pratica sportiva, palestra di fratellanza e di crescita del corpo e dello spirito.
Chinaglia con una mano li sfotte, li batte, li picchia, li terrorizza, e ci mostra, con l’altra, la nostra debolezza, il peccato di sudditanza non tanto nei confronti dei romanisti, quanto della debolezza a resistere ai loro modi cafoni, che in fondo vengono subiti per debolezza e non sorvolati con superiorità, come si ama sostenere.
Chinaglia passa, con le sue contraddizioni, le sue debolezze, la sua vicenda di uomo in ultimo fragile, debole, solo, amato e centrale davvero soltanto presso gli affetti più cari e nel cuore nostalgico dei laziali.
Passa e lascia macerie cosparse di sale, sulle quali si ricostruisce la dignitosa figura del laziale, illuso dall’imitazione chinagliesca di Di Canio, meglio dell’originale in quanto del Quarticciolo, attratto velocemente dai desideri di autoaffermazione che lo portano alla corte juventina, a fare il comprimario, lasciando libera la poltrona della star.
Autoaffermazione. La chimera rincorsa dal laziale, l’utopia biancoceleste, il sogno toccato con mano nel decennio cragnottiano, troppo bello per essere vero: credere nei propri mezzi, osare aspirare al cielo, e più in là non vado per non tendere troppo agli slogan della curva che non amo, e mi tocca ripeterlo a me stesso per evitare di cascarci dentro.
Cragnotti e la borsa, Cragnotti e i blitz miliardari per Salas, Vieri, Stankovic, Veron. Cragnotti che ti porta Mancini, che ti strappa dalle stanze dei Lazio club, illuminate dai pallidi neon e vibranti dell’eco delle briscolette e delle interiezioni ciociare e viterbesi, santo popolo laziale di pullman domenicali e di pani e frittate.
Tifosi come clienti, dimensioni internazionali, coppe, scalate fino alla cima del ranking UEFA, mondi lontanissimi dai pantani di Lens o dai cachinni romanisti, dai gavettoni di piscio catanesi e dalle trasferte eroiche catanzaresi, mondi ritenuti fino allora irraggiungibili e forieri di altri sogni sempre più mostruosamente proibiti.
L’autoaffermazione laziale che relega il cozzo cittadino a piccola disputa di secondo piano, retaggio di un tempo in cui si correva in mutande al Gianicolo se si perdeva il derby.
La Lazio proiettata negli scenari della nobiltà calcistica europea, come sarà, dopo di lei, il Manchester City, che in mano a Mansur si prenderà, lui sì, il sogno biancoceleste.
Il Default della Cirio di Cragnotti segna il risveglio, brusco ma mitigato dall’anno e mezzo abbondante di pilotaggio di Geronzi & Co, che col metadone della banda Mancini aiutano il laziale ad atterrare in modo meno brusco, ma presentano la più salata delle parcelle, che alla riga del totale presenta un saldo spaventoso, una cifra da capogiro che prelude al fallimento, scongiurato evitando la messa in mora da parte di Stam e soci e producendo una serie di acrobazie che scavano un cratere impossibile da colmare.
Più profonda di quel cratere è la disillusione, che ci precipita, dietro a un’ostentata fiducia di facciata, al tempo degli occhi vissuti di Giuliano Fiorini, un grande avvenire dietro alle spalle e quell’avanzo di talento bastante a cacciare in porta il pallone della vita, 21 giugno 1987, un’estate rovente che comincia e profuma di redenzione e di resurrezione.
Chi potrà mai risollevarci dall’abisso e nutrire di nuovo quel desiderio di autoaffermazione senza chiedersi se non fu Maestrelli l’artefice pensante di quel miracolo, e non Chinaglia che ne fu il braccio, e se il sogno di Cragnotti non fosse soltanto l’applicazione al calcio della grande illusione della finanza ruggente degli anni ’90, quando il calcio era una delle tante galline dalle uova d’oro e sembrava si potessero strizzare miliardi su miliardi dagli strofinacci della Bombril e cucinare sughi da ricchi con i pelati Cirio, inscatolati come natura crea.
L’arrivo del salvatore, 19 luglio 2004, fu salutato con un sospiro di sollievo, come uscire dalla fossa in cui si era precipitati, novelli Mark Renton a ruota di trofei e musichette del mercoledì, sottratti all’ultimo respiro all’onta della serie C2, destino per i cicaloni che spendono cento volte quello che guadagnano, divorati dal baco dell’autoaffermazione.
Il salvatore con lo sguardo severo, che si dice traghettatore, e nessuno coglie il sottotesto fatto di guai a voi, anime prave, e l’eco del vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, di virgiliana memoria, che poteva suonare da monito per i destini dei magnager e dei prenditori aventi diritto, e degli stakeholders tutti, ancorché nascondesse la perfida speranza del promotore romanista, che il traghettatore fosse il nocchiero che ci accompagnava verso un fallimento ancora più amaro, di ricaduta dalla speranza.
L’ansia di autoaffermazione del cuore della tifoseria laziale, che aveva salutato con i fischi e l’indifferenza la dipartita dei Nesta e dei Nedved, che si era proclamata campione quanto e più di quella squadra prodigiosa, che aveva celebrato la morte del calcio nel giorno del secondo scudetto.
Un’ansia da nutrire col ritorno di Di Canio dalle campagne di Scozia e d’Inghilterra, piccolo Chinaglia, epigono in chiave antiromanista dei gesti del Cavaliere biancoceleste, senza eguagliarne, purtroppo, la cifra di campione e i successi in campo, forse perché orfano di un padre calcistico e un poco anche di famiglia, come Tommaso Maestrelli.
Resta, il grande Tom, il sentiero da seguire, e Lotito, che non lo sa, cerca la virtù per le vie che conosce, quelle del moralismo a buon mercato, della virtù delle piccole cose, della morigeratezza, della preghiera e di tutta quella paccottiglia retorica che col calcio non ha niente a che vedere, e nemmeno con la Lazio, che è, di sicuro, portatrice di alti ideali che si perseguono, però, agendo in modo virtuoso, più che mettendosi in testa il cappello del grande fustigatore dei costumi altrui.
La storia della Lazio di Lotito comincia allora ed è fatta di vent’anni di facce in cerca di autoaffermazione, chi per un modo chi per un altro. Da Mimmo Caso la cui dedizione meritava un premio ma finiva con un esonero, che premiava un altro sguardo fiero di pretoriano laziale, Papadopulo, che evocava scazzottate con i gunners, precursore di Tufello Oddi e dei racconti delle risse epiche modello Ipswich, a Delio Rossi, ex allievo di Zeman appena retrocesso con l’Atalanta, a Reja, persona piacevole alla prima vera grande occasione, alla fine di una carriera lunghissima, passata a gestire piazze tribolate.
Figura che evoca da vicinissimo quella di Marco Baroni, passato di lato al calcio che conta, sempre a rincorrere salvezze problematiche e promozioni miracolose.
Così i tecnici, così i calciatori. La continuità è data da Simone Inzaghi, ultimo residuo dei fasti cragnottiani a rivendicare una maglia con l’impegno e il sudore della fronte, e poche occasioni per mettersi in mostra, tramontati i tempi migliori, dello scudetto e dei record di gol in Champions League. E da Igli Tare, finita nella Lazio una modesta carriera d’attaccante di peso, inventata da Lotito una nuova avventura da direttore sportivo, in quanto parlante numerose lingue.
Tutta la storia di questo ventennio è fatta di scommesse di resurrezioni, di parabole da vangelo, di fioriture di fiori immacolati in cerca di affermazione, con i più ambiziosi a bussare alla porta delle grandi per cercare gloria, finito il percorso di crescita passato a Formello.
Dal recupero di Sculli o di Meghni o di Del Nero, Brocchi e Matuzalem, masticati e sputati dal calcio che conta per un acciacco, una macchia o un difetto caratteriale, a Mauri, Rocchi, Biava, Candreva, Ledesma, promesse mai sbocciate che fanno le radici solide di tante Lazio, insieme ai Radu e ai Lulic, intuizioni illuminate, sempre nel campo della ricerca di autoaffermazione.
Con i voli verso il sole dei Pandev, scomunicati per troppa ambizione, e degli infanti di Formello, sempre più rari, da De Silvestri a Faraoni, a Keita, Strakosha, Onazi, Kozak, tutti destinati a un futuro altrove, esclusi i primi due, col senno di poi, un futuro di sfortuna e di mediocrità.
La voglia di autoaffermazione di mezzi campioni come Hernanes, che partito da Formello non si ritrova, e la voglia di riscatto di Klose, finito ai margini in un Bayern ingrato, con Van Gaal che gli preferisce Mario Gomez, di Pedro, campione cristallino messo fuori dall’albagia di Mourinho, di Luis Alberto, rifiutato dalla Premier e in preda a una depressione calcistica che lo faceva desiderare di smettere, di Ciro Immobile, formidabile cannoniere svenduto da Monchi dopo un percorso estero fatto di incomprensioni e di incomunicabilità.
L’autoaffermazione cercata e forse mai trovata dai due pezzi d’oro più puro, Felipe Anderson, bambino dai piedi fatati e dai polmoni d’acciaio, meno cattivo in campo di Cappuccetto Rosso, ma baciato dal talento più sopraffino, e Sergej Milinkovic-Savic, magnifico atleta dai piedi d’artista e dallo sguardo che s’immalinconisce a sentire il silenzio delle Grandi Piazze Europee che non lo cercano, e noi sappiamo che se le meritava eccome. Non lo cercano e lui decide, a un certo punto, che se non sarà la gloria saranno i soldi il giusto premio a tanto talento.
Autoaffermazione trovata all’Inter da Simone Inzaghi, che più di tutti ha abitato questo ventennio, autoaffermazione rivendicata da Tare, creatura lotitiana più d’ogni altra, che uscito da Formello non ha ancora trovato casa.
Ansia d’autoaffermazione che all’improvviso ha afferrato proprio lui, il boss, teorico del basso profilo, del frugale è meglio, del meglio la berlina che la Ferrari, e poi questa berlina sembra tanto una Ferrari.
Un giorno, incassato il no di Inzaghi, che voleva dire grazie presidente qua non posso crescere, ma un no doloroso, arrivato nottetempo, come fuga dopo un sì poco convinto, come quando fresco di barbiere e indossato il vestito bello telefoni a lei che ti aveva promesso una serata insieme e lei ti dice che no, non era una buona idea, che ci ha ripensato e che, anzi, sta per uscire con un tipo, che ti fa reagire.
Io non sono da meno di Marotta e dell’Inter! Pensa l’uomo della prudenza, rompe il salvadanaio del buon padre di famiglia, ricalcola il budget e si presenta a Maurizio Sarri, preceduto da chiara fama, con l’aura di guru cucitagli addosso dalla stampa e dalla napoletanità, con cui lui gioca, seduto su un ego che, anche a ragione, fa provincia.
Si scatena la fantasia, finalmente un castigamatti, un supereroe del calcio, uno che non faccia pensare al miracolato di turno, forma mentale ormai cronica del laziale, sempre diffidente e scettico rispetto alle trovate LotiTare, sempre in preda alla sindrome del marziano di Flaiano, del ma chi cazzo sei, facce lavorà, del Ciro Inutile, del Klose vecchio, del Parolo e Candreva scarti del Cesena, dei giocatori der Verona, di Sals sarciccione, Veron che gnevà, de Pancaro e Favalli chemmancoinserieccì. Sarcasmo da quattro soldi preso in prestito dai romanisti, preceduti a boomerang sullo stesso terreno dello sfottò, oggi autoinflitto a tutti i livelli.
Sarri il castigamatti è una vampa d’orgoglio che presto lascia lo spazio al timore per le bollette da pagare, i conti che non tornano, i vestiti ancora buoni che basta un rammendo e non serve comprarne di nuovi, le scarpe che si possono risuolare.
Così il cuoco stellato cucina gli avanzi, e se ne lamenta, nutrendo radio sfiducia. Così ci si pente di aver guardato in faccia il sole. Così si perdono i sogni d’autoaffermazione dei migliori, sedotti e abbandonati da Inzaghi, irretiti in teorie calcistiche che restano astratte, private dei vagheggiati migliori interpreti, incalzati dal tempo che passa e invaghiti del sogno aureo del compagno, migrato dove i rubinetti sono d’oro e di diamanti e scorrono fiumi di latte e miele, e promesse di vittorie, per quanto effimere e un poco fasulle.
Il crollo della morigeratezza, una sorta di O tempora, o mores autoindotto dalla Sarritudine che vuol dire perdita del senso delle proporzioni. La restaurazione con la scelta del castigamatti Tudor, pronto a dare di bastone ma ugualmente dotato di liste della spesa irragionevoli e di sottovalutazioni del guardaroba allestito con tanti sacrifici e con le solite intuizioni che si ritengono all’altezza, ma non sempre lo sono.
Ragazzi bravi, spinti dal desiderio di lavorare per trovare l’autoaffermazione nella Lazio, quella che trova finalmente Fabiani, direttore sportivo che passa il tempo a dire io, io, io, io, come faceva anche il buon Reja, inventore di troppe tattiche calcistiche e scopritore di esagerati talenti, come lo stesso Sarri con i suoi ricordi del Sansovino, e Pioli dalla provincia, e Simoncino che tutto copre con il suo percorso virtuoso che mette la faccia sulla copertina di questo ventennio, che si celebra ricordando se stesso, con un Baroni (Reja 2.0, ma diverso in campo) al timone, e tanti ragazzi in cerca d’autoaffermazione, retrocessi, scartati dai colossi d’oltremanica, guariti da infortuni catastrofici, gente che suda al sole d’Auronzo, malsopportata, dice, dal Comune locale, stanco dei troppi clamori.
Gente che sta lì che legge gli striscioni di una contestazione che non capisce, nemmeno se a spiegargliela è il ragazzo cresciuto a Formello, quel Danilo Cataldi, capitano in pectore, che la voglia di autoaffermazione se l’è soddisfatta nella Lazio, eccome, insieme al magnifico laziale Gabarrone Patric.
Non è una squadra per stelle, nemmeno per quelle cadute in disgrazia e cacciate da Old Trafford. È una squadra che rappresenta la sua storia di sempre, nell’attesa che arrivi un nuovo Redentore, che abbia il sorriso guascone di Chinaglia o l’istinto predatore di Cragnotti.
Nell’attesa, cucina casalinga, voli a bassa quota, meglio la berlina che la fuoriserie, bisogna contenere le spese e le velleità, nella comodità della casa comune, con la chiesa in costruzione e il progetto, vagheggiato, di una casetta tutta per noi, allo Stadio Flaminio, con vista sugli Scarabei di Renzo Piano.
A proposito di autoaffermazione.
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