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Июль
2024

Comsubin, reparti molto speciali

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Orgoglio italiano, i subacquei e incursori «Teseo tesei» sono la punta di diamante delle nostre forze armate (e della Nato), addestrati per ogni tipo di crisi.

«Appena riparato dietro al muretto ho visto due sbuffi di polvere, uno dietro l’altro, esattamente all’altezza della mia testa da dove sparavo un paio di secondi prima, non di più. Probabilmente era un cecchino» racconta il capitano di vascello Luigi Romagnoli, comandate del Goi, Gruppo operativo incursori della Marina. Assieme al Gos, il reparto dei palombari in grado di immergersi fino a 300 metri di profondità, sono l’ossatura del Com.Sub.In., il Comando del raggruppamento subacquei e incursori «Teseo Tesei», fiore all’occhiello delle forze speciali italiane.

La battaglia con i talebani in Afghanistan è durata tre ore con appoggio aereo, droni ed elicotteri. Romagnoli, physique du rôle e pizzetto, comandava un ampio dispositivo della Task force 45 con i militari dell’esercito afghano e gli alpini paracadutisti del reggimento monte Cervino. «L’ammassamento avversario era consistente e contro di noi impiegavano anche cannoni senza rinculo e mortai» racconta a Panorama. Non è l’unica volta che Romagnoli ha visto la morte in faccia: «Nel 2006, sempre in Afghanistan, nel deserto di Bakwa a bordo di un pick up, siamo stati i primi italiani a saltare in aria su una mina anticarro». Più avanti c’era una granata da 120 millimetri pronta ad attivarsi via radiocomando. «Il mezzo è volato» spiega l’incursore di Marina. «Ho avuto un black out, si è spenta la luce. L’ultimo ricordo rimane della notte prima sotto uno spettacolare cielo stellato e poi le pale dell’elicottero dell’evacuazione medica». Tempestato di schegge su tutto il corpo si riprende in tre mesi e torna operativo.

«Il Raggruppamento è una realtà di circa 850 persone, compreso il personale logistico» spiega il contrammiraglio Massimiliano Rossi, che ne è stato a capo fino al 24 giugno, prima lasciare il comando al contrammiraglio Stefano Frumento. «Il numero degli incursori rimane classificato» prosegue Rossi «mentre i palombari del Gruppo operativo subacquei sono circa 230». E vengono proiettati in mezzo al mare con lanci da aerei o da elicotteri. Il Comsubin ha sede nell’antica fortezza del Varignano sul Golfo di La Spezia. «Padre» fondatore, nel 1954, fu l’ammiraglio Gino Birindelli, medaglia d’oro al valor militare, della Decima flottiglia Mas, anche se il raggruppamento è dedicato a Teseo Tesei, che sviluppò appunto il «Mas», ovvero Mezzo d’assalto subacqueo, un «siluro a lenta corsa» da cavalcare sott’acqua fino a destinazione. Tesei è medaglia d’oro alla memoria per l’attacco a Malta del 1941, quando «decideva di rinunciare ad allontanarsi dall’arma prima che esplodesse contro l’obiettivo». Spiega Rossi, uniforme bianca impeccabile: «Il futuro sarà remotizzato grazie a mezzi avveniristici che sfrutteranno anche l’intelligenza artificiale» dice a Panorama. «Per la parte offensiva però si continuerà a cavalcare i futuri “maiali” (nomignolo attribuito da Teseo Tesei al mezzo d’assalto, ndr), come strumento di infiltrazione, che adesso chiamiamo trasportatori subacquei». Il 2 giugno, festa della Repubblica, è apparso il Bir, capace di portare quattro operatori e due piloti.






Gli incursori sono stati schierati anche per la protezione del G7 in Puglia. «Nello scenario dei conflitti attuali l’impegno crescerà» osserva il contrammiraglio. «Le navi russe si sono fatte intraprenderti e vengono più spesso nel Mediterraneo, come i sommergibili. Nel Mar Nero gli ucraini utilizzano l’evoluzione moderna dei nostri barchini esplosivi della Prima guerra mondiale». Subacquei e incursori operano con un Gruppo navale speciale composto da cinque unità, compresa la veterana Anteo. A breve arriverà in linea Olterra, una delle navi più avanzate al mondo nel settore della ricerca subacquea e del soccorso sommergibili. Nell’ambito dell’operazione «fondali sicuri» i palombari del Gos sono impegnati nelle ispezioni e vigilanza delle condotte sottomarine dai cavi delle telecomunicazioni ai gasdotti e oleodotti che potrebbero subire sabotaggi.

«Non esiste un addestramento specifico, ma metti nel conto che puoi tornare mutilato, o non tornare vivo. Quando mi sono risvegliato all’ospedale militare americano di Baghdad mi avevano steso un lenzuolo che copriva le gambe: da una parte si vedeva il piede, dall’altra no» racconta il Secondo Capo Emanuele Valenza. Polo bianca e barbone nero si è arruolato a 20 anni. Oggi ne ha 43 e fa il consulente di aziende nel campo della sicurezza e della difesa, dopo aver perduto un pezzo di gamba, sotto il ginocchio, durante una missione in Iraq della Task force 44. «Stavamo accompagnando i peshmerga (i combattenti curdi, ndr) in un’operazione di tre giorni al di là di un’area montuosa, a nord est di Kifri, dove l’Isis aveva creato un rifugio sicuro con grotte e camminamenti per spostare armi e uomini» spiega Valenza. Alla fine dell’operazione, in avvicinamento a una base sicura, un mezzo dei peshmerga va incontro alla squadra dei corpi speciali che procede a piedi. «Vicinissimo a noi è saltato in aria su un piatto a pressione e l’esplosione ci ha investito. All’istante ricordo di non avere sentito nulla, vedevo solo nero» racconta il veterano. «Ho aperto gli occhi dopo 20-30 secondi. Un peshmerga cercava di tamponarmi il sangue che usciva da una ferita alla fronte». La trappola esplosiva stacca di netto la gamba di un incursore paracadutista del Col Moschin e ferisce gravemente altri tre italiani dei corpi speciali. «La gamba mi sembrava rotta, ma era ancora attaccata» spiega Valenza. «Dall’anfibio aperto vedevo che mi mancavano alcune dita del piede. Cercavo di alzarmi ma non ce l’ho fatta. Ero fuori gioco: l’osso si era sgretolato». Il tenente di vascello medico Gianluca Degani, che è nella base a 300 metri si avvicina a piedi rischiando molto. Nel 2021 è stato insignito della medaglia d’argento al valore di Marina: “Sprezzante del pericolo e della propria incolumità, con coraggio, lucidità e reattività, si prodigava per portare aiuto e prestare le prime cure ai feriti, effettuando manovre salvavita ed assistendoli fino all’arrivo dei soccorsi per la loro estrazione”».

Valenza non dimenticherà mai la prima telefonata con Arianna, che oggi è sua moglie: «Come va?», «Sto bene, ma c’è un problema...». «Del piede non me ne frega niente» rispose la ragazza. I corpi speciali della Marina compiono missioni ad alto rischio fin dal primo dispiegamento ufficiale all’estero con il contingente italiano in Libano nel 1982. L’operazione Margherita, di tre anni dopo, prevedeva un blitz in alto mare per liberare i passeggeri dell’Achille Lauro presi in ostaggio, ma il commando palestinese si è arreso poco prima. Subacquei e incursori della Marina, oltre che in Iraq e Afghanistan, hanno operato in Somalia, a Timor Est, contro la pirateria, nell’ex Jugoslavia, in funzione antiterrorismo in patria e per garantire la sicurezza di vertici come il G8 a Genova e Pratica di Mare. E sono la punta di lancia, con i cugini del 9° reggimento Col Moschin, per l’evacuazione dei connazionali da zone di guerra come in Sudan lo scorso anno. Nel 1994 scattava l’operazione Ippocampo durante il genocidio in Ruanda. «Abbiamo recuperato tre missionari vicino a Kigali, dove avevano massacrato a colpi di machete 1.200 persone rifugiate in una chiesa» racconta l’incursore capo in congedo Gaetano Zirpoli. Nella stessa missione, al comando dell’aliquota del Col Moschin, c’è un giovane tenente, Roberto Vannacci.

Le polemiche sulla Decima Mas per la parata del 2 giugno e il generale Vannacci, che ha utilizzato la «X» come invito al voto, vengono messe da parte come poco serie. Sul cacciatorpediniere Caio Duilio, nel Mar Rosso all’inizio della missione europea Aspides per garantire la libertà di navigazione minacciata dagli Houti, vengono imbarcati tre palombari del Gruppo operativo subacqueo. «Siamo gli artificieri del mare. Qualsiasi minaccia esplosiva, dal pacco bomba che potrebbe essere portato a bordo, alla mina navale o una carica piazzata sotto lo scafo ce ne occupiamo noi» spiegano Marco, Roberto e Nico in mimetica chiazzata blu. L’angusta sala siluri di dritta è stata trasformata in «base». «Se scatta l’allarme rosso mi piazzo al fianco del comandante della nave» spiega Nico. «Quando gli Houti ci hanno lanciato il primo drone ha avuto sangue freddo aspettando il momento giusto per sparare e intercettare la minaccia».

La vita da palombaro è affascinante, ma durissima come nessun altro impiego. Per questo è all’attenzione dei vertici della Difesa la richiesta di migliorare le indennità orarie di immersione. «Il nostro problema è la mancanza di personale» ammette il contrammiraglio Rossi. «Siamo afflitti dalla scarsità di volontari». Valenza, ferito nel corpo, non ha mai perso lo spirito da incursore: «Ai giovani dico che all’inizio patisci il freddo, la fatica e la paga è bassa, ma questo reparto forma l’uomo che sarai domani rendendoti pronto a qualsiasi sfida nel futuro».