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Tim Henman: “Della carriera da tennista non mi manca quasi nulla. Murray? Spero continui, su di lui tante idiozie”

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La stella del tennis racconta la natura del successo, l’amore per il Centre Court e la missione di rendere lo sport più inclusivo

di Mick Brown, pubblicato da The Telegraph il 5 giugno 2024

Chiedo a Tim Henman a cosa stesse pensando quella domenica mattina, il 23 settembre 2007, quando si è svegliato consapevole che la sua carriera da tennista professionista era giunta al termine.

“Ricordo perfettamente”, risponde senza un attimo di esitazione. Salda stretta di mano, sguardo risoluto: un uomo sempre avanti nella conversazione così come lo era sul campo da tennis. Tiger Tim, la grande speranza britannica per 15 anni, sei volte semifinalista Slam, quattro delle quali a Wimbledon, così amato nel campo più bello e prestigioso di questo sport che hanno ribattezzato una collina col suo nome.

“In realtà, ci sono state due mattine”, dice.

L’evento riguardava la serie di incontri in Coppa Davis tra la Gran Bretagna e la Croazia a Wimbledon. Venerdì, Henman giocò e vinse il match di singolare, e l’indomani batté con Jamie Murray la coppia croata nell’incontro di doppio.

“Quella sera ci abbuffammo a Londra; la domenica mattina probabilmente mi sentivo un po’ malconcio ma non dovevo giocare poiché le partite erano ormai ininfluenti”.

“Avevamo appena avuto la nostra terza figlia, Grace, due settimane prima. Rosie e Olivia, invece, avevano cinque e tre anni al tempo. E ricordo di averle portate all’asilo nido. Poi sono tornato a casa. Avevamo due Labrador neri, quindi ho pensato «Li porto fuori per una lunga passeggiata adesso e penso a dove sono arrivato e basta». E quando mi sono incamminato ho sentito come se il mondo si fosse sollevato dalle mie spalle”.

Siamo seduti nella suite Rolex a Wimbledon. Henman, 49 anni portati benissimo, indossa dei chino e una felpa con la zip, l’uniforme dello sportivo in pensione, e beve acqua frizzante da un bicchiere sul tavolo di fronte a lui.

Rolex ha ufficialmente segnato lo scorrere del tempo a Wimbledon dal 1978. Esistono pochi esempi migliori in quanto a sponsorship e branding efficaci. Ogni volta che una telecamera inquadra il tabellone in qualsiasi campo a Wimbledon, l’orologio Rolex è là.

Henman è un testimonial per il marchio dal 2013. La suite è adornata da raffigurazioni del gruppo elitario di tennisti che come lui sono stati testimonial del brand: Chris Evert, Iga Swiatek, Carlos Alcaraz, Björn Borg (l’uomo che prima di chiunque ha ispirato Henman a diventare un tennista) e Roger Federer, che reputa il più gran giocatore ad aver mai calcato l’erba del Centre Court.

Henman ha affrontato Federer in 13 incontri, vincendone 6 e perdendone 7. Potrebbe raccontarvi i dettagli di ogni match, ogni colpo. “Ricordo gli incontri che ho giocato quando avevo meno di otto anni. Tutte le pessime chiamate dei giudici di linea.”

E sei ancora arrabbiato. Ride.

Henman dice che ciò che per lui descrive Wimbledon è “la storia e la tradizione, anche se ora c’è l’innovazione, ma si torna ai campi in erba, all’abbigliamento quasi completamente bianco. Il Centre Court, il Royal Box…” In poche parole, l’evento inglese per antonomasia; qualcosa che si potrebbe dire dello stesso Henman.

È il prodotto di un contesto borghese facoltoso; suo padre, Tony, scomparso poco prima della mia intervista con Tim, era un avvocato e un poliedrico sportivo, sempre presente sugli spalti del Centre Court di Wimbledon agli incontri del figlio, impeccabilmente in giacca e cravatta, dai tratti spigolosi impressi, come scrisse un giornalista del settore, in un’espressione di “calma maestosa e imperscrutabile, che divenne una delle grandiose prestazioni britanniche del torneo”.

Henman crebbe nell’Oxfordshire, il più giovane di tre figli, tutti incoraggiati a eccellere in ogni sport: dal calcio all’hockey, dal cricket allo squash.

Tuttavia, il tennis (e Wimbledon) gli scorreva nelle vene. Nel 1901 la sua bisnonna materna, Ellen Stawell-Brown, fu, a quanto pare, la prima donna a servire con il braccio sopra la spalla a Wimbledon. Sua nonna materna, Susan Billington, partecipò a Wimbledon varie volte negli Anni ’50, giocando il doppio misto sul Centre Court con il marito, Henry, e raggiungendo il terzo turno nel doppio femminile nel 1951, 1955 e 1956.

Sua madre portò Henman, all’età di 6 anni, a Wimbledon per guardare Björn Borg giocare sul Centre Court. “Conservo ancora il biglietto; ricordo che cosa indossavo, dov’ero seduto”, dice. “Fu allora che presi la mia unica decisione professionale: il tennis era ciò che volevo fare”.

A 11 anni vinse una borsa di studio per la scuola privata Reed’s School a Cobham, pagata dallo Slater Squad, un gruppo fondato dal business man Jim Slater per scovare e coltivare la nuova generazione di giovani tennisti britannici. Ogni giorno dopo la scuola, e anche il sabato, Henman andava al tennis club David Lloyd vicino Heston per un’intensa sessione di allenamento.

All’età di 16 anni, Henman lasciò la scuola e le certificazioni ottenute alle spalle e a distanza di un anno giocava nel circuito junior ATP prima di scalare la classifica del circuito professionistico. Nel 1994 era tra i primi 200 tennisti al mondo; l’anno dopo, in top 100; nel 1996 faceva capolino nella top 30.

“Mi motivavo sempre. La pressione era completamente autoinflitta”

Il combustibile all’inizio della sua carriera “nel vero senso della parola”, dice, era sua madre, Jane. “Mi accompagnava ovunque per giocare i tornei”, spiega. “I miei genitori erano fantastici per un tennista. Mio padre ci diceva due cose da quando eravamo piccoli: qualsiasi cosa voi facciate, date il 100%, riferendosi in modo particolare al mondo dello sport. E poi diceva che dovevamo saper parlare alla gente; vi meraviglierete delle persone che conoscerete e delle porte che vi si apriranno se ci riuscirete”.

“Mi hanno dato tutto il supporto, l’incoraggiamento e le possibilità senza mai intromettersi. Oggi quando bazzico il mondo dello sport e vedo genitori invadenti, mi fa male il cuore perché non si svilupperà un buon rapporto”.

“Non c’erano molte persone più competitive di mio padre e ciononostante sono sempre riuscito a motivarmi da solo. Da quando ho lasciato la scuola e ho iniziato a giocare da professionista fino a quando mi sono ritirato, mi iniettavo la pressione nelle vene”.

“Credo che la psicologia che vi è dietro sia interessante. Per ogni sportivo o sportiva professionista, esistono tantissime persone che vogliono dare consigli. Che siano i giornali, la televisione, la radio, puoi sentire la pressione esterna, ma la grandissima parte delle opinioni che ti daranno è irrilevante. Non sono mai stato influenzato o condizionato da qualunque cosa intorno a me. Giocavo sempre per me stesso”.

Nel 1998 raggiunse la prima semifinale a Wimbledon, perdendo da Pete Sampras. Approdò nuovamente alle semifinali nel 1999, nel 2001 e nel 2002, sempre perdendo dal vincitore del torneo, quando ormai, la “Henmania”, come l’avevano battezzata i media, aveva quasi raggiunto l’isterismo. Lo stesso Henman fornisce un interessante punto di vista sul motivo per il quale i britannici avrebbero dovuto stringerlo al petto del Paese con altrettanto fervore. Era un’epoca in cui il tennis maschile viveva una crisi da un bel po’. Nessun tennista britannico era riuscito a raggiungere le semifinali dopo Roger Taylor nel 1973. Henman offrì la più elettrizzante delle cose: la speranza.

“Credo che il tempismo abbia rappresentato una parte importante così come il fatto che io abbia giocato sull’erba, le condizioni in quel periodo e il mio stile di gioco dominato quasi interamente dal serve and volley; penso abbiano influito tanto”.

Si potrebbe dire che la delusione di non aver mai raggiunto la finale a Wimbledon ha reso ancora più scintillante la leggenda di Henman. Non c’è nulla che i britannici venerano più di qualcuno che fallisce da eroe, sforzandosi con tutto sé stesso senza mai riuscire a tagliare il traguardo.

Henman ascolta l’ipotesi in buona parte annuendo e ridendo… “Beh, il mio sogno crescendo era vincere Wimbledon. Penso che fossi abbastanza bravo per riuscirci, ma c’era qualcuno più bravo di me. Federer, ad esempio. Lleyton Hewitt era più bravo”. Alza le spalle. “Doveva andare così”.

Si interrompe, poi chiede cosa sia il successo. La domanda è retorica. “Penso che, se dai il massimo, il 100% in ogni cosa che fai, avrai successo. Nello sport è abbastanza semplice quantificare tutto con vittorie e sconfitte”.

“Sarei felicissimo se avessi vinto uno Slam. Ma non c’era verso. Ero numero quattro al mondo, ho vinto 11 titoli e l’argento olimpico: ho ottenuto ciò che mi spettava”.

“Wimbledon era assolutamente l’apice per me e se avessi potuto giocare tutta la mia carriera su un solo campo, avrei scelto il Centre Court. È stato il teatro dei miei momenti migliori, ma anche dei miei più grandi insuccessi che non posso ripudiare: è stato un viaggio fantastico”.

“Quando riguardo la mia carriera, vedo delusioni ma non ho rimpianti. Se ti guardi alle spalle pensando «Avrei voluto fare così» o «Se mi fossi impegnato di più», sarebbe difficile conviverci. Io non mi sento così”.

“Quando mi capita di pensare agli anni in cui giocavo a tennis da professionista, non mi manca quasi niente di quel periodo”

La resa dei conti arrivò ad agosto del 2007, a Washington, quando Henman affrontò l’esordiente americano John Isner, alto 2,08 metri. Si ricorda che Isner fece 37 ace nell’incontro per batterlo. In seguito, Henman bevve qualche birra con il suo coach di sempre e con uno dei suoi migliori amici, Paul Annacone. “Dissi che «Per la prima volta in assoluto credo che stia diventando il mio lavoro anziché la mia passione». Mi guardò e disse «Se non ti diverti, dovresti mollare».

“Allora gli dissi «Cosa? Mollare?». Mi rispose «Beh, se non ti diverti, perché lo fai?».

“Ho guardato il calendario e avevo la Coppa Davis a Wimbledon, in casa, e ho pensato che fosse finita. Tra la seconda e la quarta birra avevo deciso quando mi sarei ritirato”.

E questo è quanto. Stava per compiere 33 anni e aveva giocato a tennis, ad alto livello, per 17 anni. Ma nei 16 anni che sono passati da allora, non ne ha sentito la mancanza neanche un po’. “Credo di aver spuntato la casella,” dice. “Amo il tennis, amo contribuire a questo mondo. Ma i tornei, l’allenamento, i viaggi, la disciplina, la dieta, i test antidroga, e il resto… Non mi manca niente di tutto ciò. E non ho nessuna voglia di giocarci. Una buona parte di ciò è dovuta al fatto che non credo di essere più così bravo. Ero abbastanza forte, ma oggi ogni volta che metto piede su un campo da tennis, penso che mi facciano male i gomiti e che preferirei di gran lunga giocare a golf”.

Un “golf-dipendente”, scherza sul fatto che sia sul campo da golf ormai anche per dormire (più realisticamente, un paio di giorni a settimana). Ammette che giocare a golf non possa mai replicare la vena competitiva, la pressione autoinflitta, che lo ha portato nell’olimpo del tennis. “Ma non ho bisogno di replicarla. Sono nato competitivo. Ma amo il mio social golf e si avverte una punta di competizione in questo ambiente”.

È un socio del Sunningdale. “È pieno di ottimi giocatori lì”. Il suo handicap è +2. “Non male, ma si può fare di meglio”.

Capisce, dice, come il ritiro può lasciare un vuoto per sportivi e sportive, come mai possono avere difficoltà, ma Henman non ha mai provato queste emozioni. “Nella mia testa non mi stavo ritirando. Stavo aprendo un capitolo in cui avrei passato più tempo a casa con la mia famiglia. Avevo macinato chilometri a sufficienza e c’erano tante altre cose che volevo fare”.

Nel 2000 fondò la Tim Henman Foundation che collabora con le scuole offrendo opportunità didattiche e sportive, così come tutoraggio e borse di studio, per bambini con un vissuto difficile e svantaggiato. La fondazione ha raccolto più di 3 milioni di sterline e ha aiutato più di 62.000 ragazzi dal 2015, quando ha cambiato marcia e si è rinnovata.

Lo scorso anno Henman ha osato nuovamente tornare sul campo da tennis in vista di una raccolta fondi per la fondazione, giocando 24 ore in un fine settimana: 12 ore il sabato e 12 ore la domenica. “Giocando così tanto ho dato per un po’ di tempo”. Negli ultimi 16 anni è stato anche nel board dell’All England Club; una “ripida curva di apprendimento”, dice, nel prendere confidenza con l’altro lato del tennis, che siano i diritti televisivi, gli accordi o le obbligazioni.

Pare che in futuro sarà una scelta naturale per salire a capo del board. Ma come fa notare, il consiglio e il presidente sono “volontari” e al momento i numerosi accordi di collaborazione, prima tra tutti quello con Rolex, e il suo contributo per la BBC costituirebbero un conflitto di interesse. “Non penso sia qualcosa che potrei fare subito. E di solito non penso avanti tanto in anticipo”.

Tornerà a fare il telecronista per la BBC in vista di Wimbledon.

Il tennis è in una fase di transizione, proprio come lo era quando Henman si affermò nello sport. L’era dei mostri che hanno dominato il tennis per più di 15 anni è finita. Federer si è ritirato. I migliori anni di Andy Murray sono passati, anche se ora ne ha 37 e continua a battere il tempo e gli infortuni per poter giocare. Di quella generazione, solo Djokovic è rimasto infrenabile.

Murray dovrebbe ritirarsi? “Assolutamente no!” Risponde indignato. “C’è stata un po’ di questa narrativa secondo cui si stia macchiando la reputazione. Sono solo idiozie. Ha vinto tre Slam, due ori olimpici ed è stato numero uno al mondo. Perde qualche incontro e la sua reputazione è compromessa? Non ci credo. Dovrebbe giocare finché non si stanca e quando vorrà fermarsi, che si fermi”.

La nuova generazione di giovani tennisti, Alcaraz e Sinner in primis, hanno “un’eredità impegnativa da raccogliere”, dice. “Se sei il futuro dello sport e succedi a Federer, Nadal e Djokovic, tre dei più grandi giocatori di sempre, vincitori di 66 Slam, l’asticella è davvero alta. Credo tuttavia che Sinner e Alcaraz siano fenomenali e nel quadro complessivo dei vincitori Slam, ne porteranno parecchi a casa.

“Le rivalità sono così importanti nel nostro sport: basti pensare a Evert e Navratilova, le sorelle Williams, Becker e Graf o Agassi e Sampras. Avremo sempre bisogno che le prossime generazioni si facciano avanti, avremo bisogno delle rivalità e avremo bisogno che giochino nei tornei più importanti”.

Quella tra Alcaraz e Sinner, dice, si sta configurando come una di quelle grandi rivalità e sarebbe sorpreso di non vedere uno di loro due in finale. Chi vincerà? Senza esitazione: “Djokovic”.

Il tennis britannico, crede, è nel suo stato di grazia dopo tanto tempo. Nel circuito maschile, Cameron Norrie, Dan Evans, Jack Draper e Liam Broady sono tutti nella top 100. “Quando giocavo, c’eravamo solo io e Greg Rusedski; non c’era una forza radicata in profondità”.

Nel femminile ci sono Katie Boulter, Harriet Dart, Jodie Burridge ed Emma Raducanu. Conosce bene quest’ultima: il suo allenatore, Andrew Richardson, che la portò alla vittoria dello US Open, è un caro amico di Henman ed è stato il testimone alle sue nozze.

La difficoltà che ha affrontato, dice Henman, è aver costruito la propria carriera “completamente al contrario”, vincendo lo Slam americano nel 2021 a 18 anni non avendo nessuna vera esperienza professionale importante e poi essere gettata in un fitto calendario di tornei che ha riscosso un tributo prevedibile costituito da infortuni.

“Ma ora sta lavorando duro e sta ricostruendo le fondamenta per risalire ancora giocando un gran tennis. Ha solo 21 anni, potrebbe giocare per altri 15. I più saggi direbbero solamente di avere pazienza”.

Henman non aspetta altro che Wimbledon, ovviamente. Il suo sguardo vaga per la stanza, soffermandosi sulle fotografie appese al muro: la storia, la tradizione. “Sono estremamente innamorato di questo posto e sento la passione scorrermi nel sangue. Quando mi capita di pensare agli anni in cui giocavo a tennis da professionista, non mi manca quasi niente di quel periodo. E quel “quasi” sta abbandonando il Centre Court e per me, da britannico, giocare con quel sostegno era incredibile”.

Si ferma. “E mi manca”.

Ma ho il vago sospetto che le mazze da golf siano nel suo bagagliaio, pronte ad aiutarlo a distrarsi.

Traduzione di Carlo Laviano