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Così gli ebrei tornarono a Trieste nel 1945

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Un capitolo poco conosciuto della storia di queste terre viene affrontato da Silva Bon nel suo ultimo libro “Sogno e speranza – Una storia di leadership – La comunità ebraica di Trieste: 1945-2023”.

Silva Bon vanta una vasta esperienza di studi e ricerche sulla realtà ebraica di Trieste e dell’Adriatico orientale, cominciata nel ’66 con la sua tesi su “La persecuzione anti-ebraica a Trieste 1938-1945” discussa con il professor Enzo Collotti, ordinario di Storia Contemporanea all’Università di Trieste. Da allora si sono susseguiti una lunga serie di volumi e saggi sull’argomento.

Il testo, pubblicato dal Centro isontino di Ricerca e Documentazione Storica e Sociale Leopoldo Gasparini” (208 pagine) racconta il ritorno degli ebrei a Trieste nel 1945, quando finì l’incubo della occupazione nazista dell’Operationszone Adriatisches Küstenland. La nostra provincia che Mussolini aveva consegnato ai tedeschi nel periodo della repubblica marionetta di Salò, in barba alla retorica sull’ultima guerra risorgimentale per Trieste italiana e ai seicentomila morti che era costata. Retorica alla quale avevano creduto tanti ebrei irredentisti, specie a Trieste, traditi dalle leggi razziali del ’38, proclamate non a caso in questa città.

Finito l’incubo nazi-fascista e l’occupazione titina i nostri concittadini di fede israelita poterono tornare ad affacciarsi alla vita. I 400-500 nascosti in città si riunirono con quelli rifugiati in altre parti d’Italia o all’estero e con i pochissimi, 19, sopravvissuti tra gli oltre 700 deportati.

Nel ’46 erano 1700 gli ebrei triestini che, in gran parte, avevano bisogno di tutto.

Il leader che avvierà la ricostruzione della Comunità è Mario Stock discendente di un’importante famiglia spalatina attiva nel settore dei cementi; un altro ramo della famiglia fonderà una fiorente e molto conosciuta fabbrica di liquori.

Stock costituisce un Comitato e redige una relazione che, molto schematicamente ma altrettanto efficacemente, fa il punto della situazione. Il testo è diviso in due parti. Nella prima si parla della dominazione tedesca con le deportazioni dei membri della comunità, dei ricoverati negli ospedali e all’ospizio, della chiusura degli uffici, dei saccheggi delle case, della condizione dei libri e delle opere d’arte e dell’archivio.

La seconda concerne la riapertura del Tempio danneggiato, la nomina degli organismi della comunità, i provvedimenti per le famiglie senza alloggio, la mensa, l’assistenza in viveri e vestiario, quella in denaro, le colonie estive, le attività religiose, le attività culturali, la ricerca deportati, la reintegrazione diritti degli ebrei, i conti correnti.

Lo schema fotografa la devastazione di una comunità e anche di una città nei 599 giorni di occupazione nazista. Eppure, nota giustamente Bon, a Trieste si continuano a ricordare con più orrore i 40 giorni di occupazione jugoslava e i suoi crimini, rispetto ai due anni e mezzo di massacri, deportazioni, distruzioni e saccheggi dei nazisti. Accolti peraltro con una certa simpatia dalla popolazione cittadina memore della buona amministrazione austriaca, che la propaganda utilizzò ampiamente, basta ricordare il programma radio di successo: “Trieste chiama Vienna, Vienna chiama Trieste”. E soprattutto i tedeschi trovarono una collaborazione che neanche loro si aspettavano: fioccarono denunce e delazioni che costarono centinaia di vite.

In questa situazione spaventosa cominciò la ricostruzione: da una lettera dell’ingegner Clemente Kerbes si conoscono i primi passi della rinascita con la riapertura delle scuole con 40 alunni, con le pratiche per avere un Rabbino Capo e con la questione degli immobili, particolarmente sentita perché molte case che gli ebrei erano stati costretti a lasciare furono occupate da fascisti e da cittadini vittime di bombardamenti. Fortunatamente nella città occupata dagli alleati una benemerita istituzione ebraica americana elargiva aiuti.

Nonostante grandissime difficoltà: ricordiamo la squallida vicenda dell’oro degli ebrei, che solo un’inchiesta del Piccolo riuscì a far riemergere dalle paludi della burocrazia; la difficoltà di far valere i propri diritti di proprietà dai pochi sopravvissuti rimasti senza documenti e dagli eredi dei massacrati nei campi di sterminio, gli ebrei riuscirono a ridiventare comunità attiva nella vita cittadina con le loro istituzioni e la loro cultura. Anche se ridotti di numero: sono oggi circa seicento.

Il libro di Silva Bon si chiude con una riflessione su tre temi centrali per gli ebrei e ma anche per tutti gli altri cittadini: il confrontarsi con il dolore, il bisogno “ostinato e intransigente di verità” (citando l’immensa Hannah Arendt) e la conservazione della memoria per evitare l’oblio o ancor peggio l’assoluzione davanti al Male. —